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TORNARE AI RESTI


NUOVE (R)ESISTENZE. Sono più di due anni che Mauro passa da una struttura all’altra, da una pillola all’altra, da un pacchetto di Winston blu all’altro. Mauro è un treno in corsa che non fa più fermate. Mauro è un partigiano. A Bader serve un lavoro per rinnovare il suo pezzo di carta, ma senza la carta non danno il lavoro e senza il lavoro Bader non c’è. Bader arrivato bambino, dal mare. Bader che oggi ha vent’anni, a breve padre di un figlio che per questo paese non sarà mai (italiano). Bader è un partigiano. Ossaka e Salvatore impastano malta e cemento, a chiamata (anzi, a passaggio di caporale). Ossaka e Salvatore non sono. Fino a quando…diventano numeri. Numeri (di passaggio) per una statistica di fine anno (sui morti in nero, in edilizia). Ossaka e Salvatore sono stati partigiani. A Malinka piace quel mare che non ha mai visto. Se cresci a Polock puoi soltanto immaginarlo. Malinka sogna il mare attraverso le reti di un CIE. Sono già passati 11 mesi. Malinka (ex badante), partigiana. Palèn (Giuseppe) ha fatto la guerra: un po di Grecia, un po’ d’Africa (che non ricorda più così bene, né dove), poi il campo di Dresda (2 anni). Palèn ripara biciclette, ma è stanco. Palèn pensa a suo figlio che ha perso il lavoro, e al figlio di suo figlio che ancora non ne ha trovato uno. Palèn è stato ed è un partigiano. Il pulmino che (a volte) porta a scuola Rambo, Michaila, Yelena, Sasha, Santino e Fiamma è un pulmino solo per loro. Arriva al campo di Corleto (ma sulla strada principale, non sulla sterrata) alle 9 e riparte da scuola alle 12. Ed è un pulmino solo per loro. Il pulmino dei rom, dicono a scuola. A Yelena piace disegnare draghi. Michaila vorrebbe fare una gita in collina o al mare, con i panini da preparare. Santino raccoglie la neve fuori dalla baracca e ci scioglie polvere di caffè. Rambo, Michaila, Yelena, Sasha, Santino e Fiamma sono partigiani. I capelli di Anjum sono folti, di un nero lucente. E da quando non porta l’hijab le piace sentirsi osservata. Non l’ammette, ma sorride. Anjum è donna violata, moglie violata, figlia violata. Anjum, nascosta dal mondo, è partigiana. Rumesh scrive sui muri di Como. Ma allo sbirro parte un colpo… “un’ irriflessa ed accidentale pressione del grilletto” sentenzia la Corte. Rumesh, semiparalizzato con disturbi alla vista e all'udito, è un partigiano (armato di bomboletta spray colorata). Nomi, indirizzi, ruoli, sedi, attività. Connessioni tra NAR e istituzioni politiche nel quartiere romano di Valmelaina. Valerio è a terra, in casa, con un colpo di pistola alla schiena. Valerio è un partigiano. Franco. Riverso sul pavimento, esanime tra le proprie feci. Così, in una cella del carcere di Forlì. Cinismo, indifferenza, sprezzo della vita umana. Franco abbandonato da tutti tranne che dai suoi compagni (di cella). Franco è stato un partigiano. Una valle che da 20 anni resiste ad un progetto di devastazione ambientale (e speculazioni stato-mafiose) diventa il simbolo di una lotta che va oltre le (non) “ragioni di un treno ad alta velocità”. Diventa il senso di una lotta oltre la valle. Ed è una valle di partigiani. Dicembre 2011 (mentre la storia ripete copioni) lo Stato diffama, infanga, divora, mistifica, rinchiude chiunque vi si opponga. Lo Stato processa. Anche i compagni e le compagne del circolo Fuoriluogo, a Bologna, sono partigiani. Prospero non sta a guardare, batte la via. Ci prova, non soltanto per sè, non soltanto da sè. E con gli altri e le altre, per quello in cui non ha mai smesso di credere, continua ad essere un partigiano. SI MUORE OGNI GIORNO DI NIENTE. Partigiano: che parteggia. Ci sono storie di partigiani che non sono (e che non fanno) storia. Storie senza bandiera ne voce. Storie che sono inequivocabilmente il quotidiano. Storie alle quali non possiamo non appartenere. E per le quali non possiamo non lottare, ogni giorno. Anche (e soprattutto) lontano dai clamori e dagli appuntamenti. Siamo e dobbiamo poter essere queste storie. Perché siamo parte politica in/di un tempo di crisi. Non corpo altro giudicante, ne cerchia avulsa (a tema). Riacquisendo dinamiche di relazione reali, concrete. Riconquistando, metro dopo metro, tutti quegli spazi e quei contesti aggreganti in cui tornare ad essere persone in carne ed ossa, persone tra/con altre persone. Riconducendo le tensioni del linguaggio e del fare politico ai bisogni collettivi. Bisogni trasversali, comuni, identificati e strutturati in un percorso di lotta condiviso. Un percorso univoco, pratico, prezioso. Un percorso diretto verso un solo obiettivo. Perché palesato è il corrotto groviglio (in tutte le sue forme, al fine) che deprime ed annichilisce il sociale (e l’individuo che ne fa parte). Riconoscersi, riannusarsi. Riprendersi. Riannodarsi alle fondamenta (e minarle). Per tradurre il presente in contraddizione. Per (ri)tradurre ed esplicitare i paradossi di un conflitto quotidiano, permanente. In cui creare comuni denominatori ideologici e garantire, in tal senso, consapevolezza politica trasversale (e pancia), non dogmi teorici. Sporcarsi le mani sul campo. Per rivitalizzare una progettualità di merito (e di metodo) che possa risultare innanzitutto credibile a noi stessi, prima ancora che determinante e determinata. E per risultare altrettanto credibili (noi stessi). In un tempo in cui si muore, ogni giorno, di carcere ad esempio…“suicidati da un improvviso malore” o per “depressione ed incapacità alla vita carceraria”. O pestati a sangue da aguzzini in divisa, carnefici-burattini di un sistema ormai logoro, infetto. O semplicemente dimenticati (in un dentro o in un fuori). In un tempo in cui la dignità umana non varca le reti o le mura di strutture psichiatriche ed OPG, di nuovi/vecchi lager come CIE o “campi nomadi”, di periferie metropolitane e quartieri ghetto, di piazze vuote e strade militarizzate (tutti luoghi di non-relazione in cui sperimentare repressione e controllo, e verso cui convogliare rabbia e malcontento sociale). Gangli ammorbati di un apparato che lucra alla luce del sole su mali oscuri confezionati ad arte dalla pseudoscienza delle lobbies farmaceutiche e della psichiatria. Che mercifica l’esistenza sulla pelle di individui considerati “incapaci di volontà propria”, o istituzionalmente schedati come “stranieri, clandestini, extracomunitari, migranti”. Categorie pregiudiziali (e numeri, merce di ricambio contingente al profitto, al funzionamento continuo dell’ingranaggio, all’accumulo di capitale). Gangli di un sistema marcescente costruito e mutuato attraverso leggi razziste (di relazione, prima che di confine), norme e burocrazia xenofobe atte ad isolare, inibire, recludere in un fuori (prima che in un dentro). In un tempo in cui si muore di “genere”, perché donna. Come forma di compiacimento e scambio. Nell’espressione e nella gestualità ritualizzata di una società profondamente maschilista che legittima torture, stupri, umiliazioni, violenze quotidiane e “passionali”… ma anche violenze di un gergo acquisito e diffuso. Si muore anche di indifferenza e di pace sociale, come croci ammaestrate e catechizzate ad un sistema/nazione patriarcale in cui radici ed appartenenza risultano fondamenti escludenti dell’assioma dio-stato-famiglia (e dei suoi confini, non soltanto fisici). Di un sistema/nazione che ogni giorno discrimina e produce paure indotte (qualora non uccida) su questioni di culto, di pelle, di lingua, di cultura, di affinità sessuale, di credo ideologico. In un tempo/sistema sociale in cui si muore di lavoro e di non lavoro. O in cui lavoro significa anche ricatto esistenziale, per tanti. Ricatto sotto forma di permesso di soggiorno, di possibilità di ricongiungimento, di copertura sanitaria, di affitto, di riconoscimento e dignità personale, di sfruttamento e ingiustizia… un’impotenza lentamente indotta, e lentamente acquisita. NUOVE AVANGUARDIE (TORNARE AI RESTI). Di un quotidiano da cui non siamo avulsi, e che per forza di cose è ed implica un fare politico. E’ la crisi di un tempo in cui stiamo mancando (troppo e troppo spesso) nei tempi delle insorgenze possibili. E’ la crisi di un contesto socio-politico in cui imbruttisce ogni forma residua. E’ la crisi di un tempo in crisi. Su cui riflette anche una crisi di movimento, di lotta, di strategia, di classe. In cui viene a mancare una matrice aggregante e solidale. E palesa ogni forma di appiattimento culturale, di depotenziamento atto ad annullare ogni dinamica di incontro, ogni condiviso politico, ogni spinta trasversale al soddisfacimento dell’esistente. E ciò che ne risulta, quando compreso, è la linea di un programma chirurgico in cui con la definizione di comparti stagni e nicchie di scambio s’illudono o si assolvono tutti i presunti bisogni (millantati al sociale). Un programma il cui fine ultimo è quello di enfatizzare l’individualismo al senso del possesso (un metro quadro di gloria personale), annichilendolo e svuotandolo da ogni slancio potenziale. Servono nuove avanguardie. Avanguardie di neo-partigiani. Avanguardie strutturali al sistema. Avanguardie che non risultino fuochi fatui o esercizi di (auto)referenzialità. E che allo stesso tempo non siano scollate da tutto il resto, né presuntuosamente dogmatiche. Nuove avanguardie per le quali sia possibile un’alternativa concreta a questo stato di cose. Per le quali la percezione tra il “ciò che è” e il “ciò che dovrebbe essere” generi costantemente tensione positiva, slancio, spinta (e non più fughe in avanti). Consapevolezza di tutti, per tutti. Per arrivare a comprendere, discutere, costruire ed organizzare all’interno di un conflitto assimilato. Perché non ci si ritrovi soltanto a difensive in barricata. L’idea è che lo scontro non possa rimanere confinato in queste nuove “catene di montaggio” strategiche ma debba essere allargato a tutti i “settori” d’interesse vitale. Si tratta di capire che la vita, che il capitalismo troppo spesso ci porta a maledire, può essere anche bella…e che il programma di lotte che abbiamo intrapreso non è per una vita migliore, ma per una vita radicalmente diversa. Siamo in piena lotta di classe dopo la lotta di classe (come qualcuno ha scritto). Cui non possiamo più sottrarci. Come fiume in piena lungo un percorso tortuoso, verso valle. Come fiume in piena rinvigorito da tutti i suoi affluenti. E’ il momento. Tornare ai resti. marzo 2012

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